martedì 31 maggio 2011

c'era una volta la cabina

C'è stato un momento della mia vita nel quale potevo scegliere se fare lettere antiche (ho sempre amato molto la storia, il latino e il greco) oppure fisica. L'idea di guardare avanti invece che indietro ha diretto anche quella volta la mia decisione. Non sono perciò un laudator tempore acti, molto spesso abbiamo nostalgia del passato solo perché eravamo più giovani, più sani, più spensierati. Ma non ci ricordiamo bene se eravamo anche più felici.

E' stata annunciata la messa in pensione delle cabine telefoniche. Per chi guarda avanti non può che essere una morte annunciata. D'altronde in Italia si certificano solo le condizioni già presenti. Non è la riforma Gelmini che uccide l'Università. Gli atenei sono già belli che decotti, certifica solamente la dipartita. Così non è che la rimozione delle cabine cambia qualcosa. Non se ne trova mai una funzionante.

Però per la mia generazione le cabine sono state un simbolo. La loro porta a libretto era la porta della comunicazione con casa. Era "telefono casa" di E.T. Il gettone telefonico era sempre presente nei borsellini delle persone. Oggi non si può più dire ad un roscio che se si pettina con la riga in mezzo pare proprio un gettone. Correvano gli ultimi anni 70 e io ragazzino ero al mare a Santa Marinella con mia madre. Mio papà lavorava e veniva nei weekend o quando poteva, mio fratello, già grande, raramente. La casa che prendevamo in affitto non aveva telefono, come la maggioranza delle case di mare. Tornati su dalla spiaggia si chiamava casa dalla cabina. E magari si faceva anche la fila. Quando passavano i camion sull'aurelia non si sentiva nulla e si chiedeva di ripetere. Quando ero un pò più grande, sempre al mare la sera, uscendo con un gruppo di amici bisognava fare tappa fissa alla cabina. C'era sempre qualcuno che doveva telefonare.

Allora il costo della telefonata era il frutto di una complicata equazione. C'erano gli scatti, ma la loro frequenza e costo dipendeva dall'ora del giorno e dal giorno della settimana. Per le chiamate in interurbana poi si diceva che si andava in teleselezione, una parola che oggi nessuno usa più e che vuol dire che si metteva un prefisso senza passare da centralino. Il costo dell'interurbana era elevato. Come partiva il "pronto" il suono dei gettoni che cadevano come gocce di pioggia spronava alla sintesi. Arrivò poi l'altra truffa della SIP. La scheda telefonica. Era pratica, si metteva nel portafoglio, ma scadeva. Il senso della cosa era evidente. Molte tessere non venivano consumate sebbene pagate. Se si piegava appena appena non funzionava più.

Poichè l'aspetto è tutto si cominciò a colorarle, e c'è chi le raccoglieva, come i francobolli.

Ci sono varie cabine che ricordo con affetto. Una tedesca, ad Amburgo, dove telefonavo tutte le sere alla mia fidanzata. Una in un college inglese dove ero per una scuola. La cabina dietro piazza dei Caprettari a Roma, da dove chiamai il mio relatore di tesi per dirgli dell'esito di un colloquio per una borsa di studio. E poi, anche se non erano dentro una cabina, i telefoni pubblici della Sapienza davanti a Chimica, di fronte all'edificio di fisica, che erano una meta fissa per comunicare l'esito di un esame. I telefoni della Union Station di Chicago da dove telefonavo a casa la domenica per sapere i risultati delle partite.

Per me che ho adottato il telefonino solo nel 2006 per cause di forza maggiore, la cabina è stata la compagna di tante conversazioni. Sempre un pò buia la sera, poco pulita, i vetri scarabocchiati.

Trovo che rimuoverle, se fossero funzionanti, sia sbagliato però. Non per un fatto sentimentale certo. Ma per una sensazione di sicurezza. Qualunque cosa succeda un telefono pubblico dal quale si possono chiamare gratuitamente i soccorsi aumenta la sicurezza. In un mondo che vive di paure mi sorprende che nessuno noti la cosa.

sabato 28 maggio 2011

Any given Saturday



Ogni sabato mattina il prato tra la banca d'Italia e il Policlinico di Tor Vergata è luogo di un singolare incontro. Un ricercatore quarantenne si vede con un gruppo di studenti dell'Università, facoltà di scienze, molti del corso di Fisica (di alcuni è stato addirittura relatore della tesi triennale). E si gioca a Football Americano!

Si è partiti così come per caso. Da un regalo. Un pallone e una maglietta omaggio dei neolaureati per il 'prof', un pò fanatico di questo gioco. E la promessa di usarli. La fine della primavera dello scorso anno ha visto i primi passi dell'iniziativa. Ma solo quest'anno siamo cresciuti veramente, di numero e di motivazioni. Un giorno fisso, un posto fisso. Prima eravamo in sei, poi siamo diventati otto, cresciuti a dieci, arrivati a dodici, ed oggi, sebbene alcune assenze importanti, eravamo tredici.

Alcuni hanno già un ruolo e un nickname. Damiano è il panzer, Andrea è Norris (perché tutto gli riesce facile come a Chuck Norris), io sono 'il Prof'. Ma sopratutto mi pare che tutti si divertano ed è questa la ragione per la quale tornano e aumentano di numero. 

Il segreto del successo è una alchimia di vari fattori. Prendete il fascino di un gioco in cui l'aspetto tattico è fondamentale. All'inizio arrivavo io con una lavagnetta, adesso ne abbiamo due e un vero playbook. Aggiungete un aspetto agonistico importante sebbene noi cerchiamo di depurare il gioco da quel bit di violenza e pericolosità che vi è insito con regole particolari. Questo non ha purtroppo evitato alcuni infortuni, uno particolarmente grave, che ha costretto un ragazzo a passare la Pasqua e i giorni seguenti all'ospedale per un problema alla lingua. Il destino ha scelto però una delle persone più in gamba, che ha dimostrato in questa occasione un vero stoicismo e ha preso questo problema con serenità. E' tornato a giocare e l'altra settimana ha segnato il touchdown di apertura.

Amalgamate il gruppo con qualche personalità spiccata e una grande propensione a fare bene le cose. Ottenete la perdita del concetto del tempo e di spazio. Oggi abbiamo giocato quasi quattro ore e nessuno se ne era accorto. E' una regressione infantile se vogliamo, l'unico periodo della vita nel quale il tempo non gioca nessun ruolo. Sembra infinito. Siamo là ma fuori dal mondo, dai pensieri, dagli impegni. Si parla, si cerca di migliorarsi, si provano e riprovano gli schemi. E quando una azione passa dalla lavagna al prato c'è una gioia grande, come di avere costruito qualcosa, di avere realizzato una idea.

Ci sono sfottò, provocazioni, canzonature, ma tutti leggeri, divertenti. Magari si discute sulla posizione del pallone per 10 cm, ma solo per il gusto della provocazione. Se succede qualcosa si ripete l'azione, le penalità praticamente non esistono.

Mi sento molto fortunato per avere incontrato un gruppo di persone così belle. Persone che non sono trasparenti, che hanno qualcosa da dire, da fare e che la nostra società etichetta come 'giovani', avendo in questo un sapore negativo, come dire 'non sa fare nulla'. A me pare invece il viceversa. Credo che siano come cellule staminali. Possono essere e diventare tutto.

E frequentandoli mi pare di essere anche io più giovane. Dentro.

giovedì 26 maggio 2011

Il male

Nella sua lectio magistralis per la consegna del premio Nobel Obama disse che il male è tra di noi, è sulla terra, esiste.
Oggi è stato arrestato uno degli strumenti del male, Mladic, passato alla storia come il boia di  Srebrenica.
Penso che i giovani possano leggere su wikipedia cosa è stata Srebrenica: un enorme sterminio, un massacro di persone innocenti nel cuore di europa. Quello che non possono forse vedere perchè non l'hanno vissuto è l'inazione del mondo. 
Srebrenica era un enclave mussulmana in territorio serbo. Gli accordi di pace di Dayton non ne prevedevano. Era necessario risolvere quel problema. Già due anni prima il generale francese Morillon aveva disubbidito ad un ordine per portare aiuti alla città stremata. In quel 1995 le forze olandesi dell'ONU consegnarono la città ai suoi carnefici, e nessun aereo si levò per evitare il massacro.


Pensavo che l'eclissi dell'umanità della seconda guerra mondiale avesse vaccinato l'europa. Invece le questioni non risolte dal regime jugoslavo deflagrarono gettando quella terra in una guerra sanguinaria. 
Ricordo quando vidi in televisione la guerra in Croazia, in quei posti ove pochi anni prima ero stato in vacanza. E i soliti appelli pacifisti, la solita retorica di chi da un lato semplifica sempre il mondo come una lotta tra buoni e cattivi e chi invece pensa che la pace discenda dall'alto come lo spirito santo.


Oggi tutti si rallegrano per questo arresto. Le mamme di Srebrenica possono piangere i loro cari. Ma noi europei non ci facciamo un pò schifo? 16 anni fa, qua dietro hanno ammassato 8000 persone e le hanno uccise. E noi siamo rimasti silenti. 


E' vero il male è tra noi, e vi può stabilire la sua dimora se perdiamo la nostra umanità. 
A photo dated July 24, 1996, shows International war crimes tribunal investigators examine a mass grave in Srebrenica.

domenica 22 maggio 2011

fatti non fummo per viver come bestie

Mi ha colpito un articolo sul sito della CNN sull'abbandono scolastico delle facoltà scientifiche in america. In sostanza poiché queste discipline sono tra le più difficili molti studenti non arrivano in fondo. Tutto sommato è un dato aspettato. Il problema è che sempre meno ragazzi dall'inizio si vogliono confrontare con queste materie. E le ragioni sono facili a comprendersi. Vi è un evidente disparità tra le difficoltà che si incontrano e i risultati, sopratutto economici, che si riescono ad ottenere.

Oggi vi è un pò una idea del tutto e subito. Tutti vogliono un buon lavoro, ben retribuito, poco faticoso. E per il quale non serva una preparazione che richieda di sudare sangue. Sotto questo profilo le facoltà scientifiche sono veramente le meno accattivanti. Lo studio è duro, gli argomenti difficili, le prospettive scarse, il lavoro impegnativo e le probabilità di arricchirsi praticamente nulle.

Trovo che vi siano due tipi di problemi. Da un lato vi è un minore fremito ideologico nella conoscenza. Un mondo che giudica le persone per ciò che hanno e non per quello che sono o conoscono non favorisce la scelta della scienza. Forse è l'alluvione di informazioni che abbiamo, forse è la mancanza di fantasia che nasce per esempio da un abbandono della lettura, forse è la poca curiosità. Siamo onesti: se mostro un piccolo esperimento scientifico ad un ragazzino egli troverà la cosa molto meno affascinante di un videogioco.

Quanti ragazzi volgono lo sguardo al cielo? Quanti hanno una idea della grandezza del cosmo e della bellezza dell'universo? Figuriamoci. Pare che l'unica cosa che interessi oggi è sballarsi. Dunque il terreno su cui andiamo a seminare le idee della scienza è secco, arido, polveroso.

Ma purtroppo dopo succede anche di peggio. Non lo concimiamo. Non diamo ai più bravi nemmeno quelle opportunità che meritano. Eppure di molte cose possiamo fare a meno nel nostro mondo. Possiamo rinunciare a un pò di promotori finanziari, a quelli che speculano sulla borsa, ai tanti che hanno una rendita di posizione e che non producono nulla.

Ma non possiamo rinunciare agli scienziati. Per due ragioni fondamentali. Anzitutto perchè abbiamo bisogno di scienza, per migliorare il mondo, la nostra salute, la produzione agricola, l'impatto ambientale della civiltà, la richiesta di energia. Per mitigare le disparità sociali, per meglio distribuire, utilizzare o trovare le risorse fondamentali come l'acqua.

E poi perché l'arretramento della cultura scientifica apre le porte ad un regresso a 360 gradi. Il medioevo non nasce dall'oggi al domani. Gli antichi Greci avevano perfino misurato la circonferenza terrestre. Nessuno ha spento la luce, ma c'è stato un lento, inarrestabile processo di involuzione, dovuto sopratutto alla mancanza del riconoscimento del ruolo della scienza come motore dello sviluppo.

La scienza non è un costo, è una risorsa. E' la dinamo della civiltà, è l'acqua del nostro benessere. Mettere al mondo una persona è un costo? Qualcuno pensa che il mondo non si dovrebbe più riprodurre perchè è costoso? No certo, e non solo per ragioni "umane". Infatti servono i giovani che lavorano per pagare le pensioni. Sono necessari perché la loro freschezza porta innovazione, idee, progresso. E dunque un nuovo nato non è un costo, è un investimento per la società. Ed allora perché non capiamo che la scienza non è un costo da tagliare, ma un proficuo modo di investire risorse? Perché siamo così miopi da non capire che la produzione di sapere è alla base di quella di qualunque bene materiale? Perché non vediamo che la conoscenza, l'arte, la cultura, sono una ricchezza per la persona come niente altro?

Perché?

Fatti non fummo per viver come bestie...

mercoledì 18 maggio 2011

il paese del NON

Quello che conta veramente in Italia è NON essere.

La Lega NON è il PDL, la Moratti NON è Berlusconi, Pisapia NON è un ex brigatista, questo politico NON è condannato/indagato/rinviato a giudizio etc. Noi NON siamo come gli altri. Noi NON aumenteremo le tasse. NON spieremo le telefonate. Loro NON sono democratici. Ma sopratutto il candidato sindaco a Milano e a Napoli della sinistra NON è del PD (cosa veramente importante pare per gli elettori di centro sinistra).

Ma insomma possibile che sia un valore NON essere qualcuno o qualcosa? Non dovrebbe essere il viceversa? E' molto più grande lo spazio di ciò che NON siamo di quello che invece possiamo essere. Votiamo qualcuno perchè NON è un politico di professione, come se il NON essere politico fosse un valore aggiunto. Ma può essere che sia un pirla come tutti gli altri e forse anche di più!

Il problema è che da noi schierarsi vuol dire essere dei radicali, si ottiene facilmente l'etichetta di estremista.

Ma vi immaginate in Germania se il cancelliere della CDU andasse alle elezioni dicendo NON sono del SPD? Gli elettori la mandano a casa in 5 minuti. Bella forza, dicci chi sei, che la fantasia su cosa NON sei la esercitiamo noi.

E ai referendum cosa voto sì o no? Ma ci mancherebbe altro: NON andate a votare. Esprimere una scelta...rischia di essere una cosa rivoluzionaria, dato che sono 20 anni che nessun referendum supera il quorum.

NON vi preoccupate...

lunedì 16 maggio 2011

stupirsi della normalità

Eh lo so, ne avete le tasche piene della mia filo germanicità. Ma non ci posso fare niente se ogni volta che vengo qua noto qualcosa che mi colpisce.

Il mio rapporto con questa città è di lunga data. Sin dalla prima volta Amburgo mi apparve subito per quello che è. Una città a nord della Germania, dove a Febbraio il tempo è inclemente e la temperatura rigida. Grigia come il cielo che la sovrasta. La città anseatica è veramente godibile solo con il bel tempo. I suoi canali, le passeggiate lungo il lago, il giardino di planten und blumen, la vita serale nelle strade di Altona e quella notturna di Repperbahn si godono appieno solo quando non piove, meglio ancora con il sole. Fare il metereologo ad Amburgo è una professione tranquilla. Dite che pioverà e quasi al 70% ci avrete azzeccato, in qualunque stagione dell’anno. Anche la prima sera che giunsi là pioveva. Prima di partire scattai un pò di foto, per ricordare quel viaggio nel paese delle meraviglie che era un grande laboratorio di ricerca. Le avrei tenute come un ricordo caro se non fossi mai più tornato là. Vi tornai invece decine di volte e continuo a farlo.


Ed ogni volta mi lascio sorprendere. Sono 14 anni che vengo qua e scopro sempre qualcosa di nuovo. Adesso c'è una conferenza organizzata al porto e per arrivarvi si passa nelle stradine lì intorno che sono piene di ristoranti e caffè. Stamani, sul presto, la vita non pulsava. La pioggia scivolava pigra sui tavoli e sulle sedie accatastate sui marciapiedi, gocciolando dagli orli degli ombrelloni. E lì ho pensato che quei tavoli e quelle seggiole sarebbero di graziosa decorazione in qualunque giardino. Eppure eccole lì, lasciate all'addiaccio, senza una catena, una protezione, nulla. Nel posto più malfamato per eccellenza di una città: il suo porto. Nessuna grata alle finestre, ne' impianti di allarmi. Eppure questa è la normalità e se non ce ne accorgiamo vuol dire che oramai siamo abituati al peggio. 

mercoledì 11 maggio 2011

il terremoto di roma

Come era facile attendersi non c'è stato nessun terremoto distruttivo oggi a Roma. Ma qualcosa è successo. Secondo alcuni dati ci sono state un 20% di assenze in più sul lavoro e in alcuni quartieri (fonte CNN) si è arrivati ad avere quasi il 50% dei negozi chiusi per inventario!!

Per chiunque abbia un minimo di cultura scientifica appare evidente come una previsione di un terremoto sia estremamente difficile oggi, e possa avere una qualche validità scientifica solo nella imminenza. Figuriamoci qualcosa predetto 30 anni fa.

Alcune riflessioni sono d'obbligo. Nel nostro paese la cultura scientifica è relegata alla serie B in zona retrocessione. Si insegna poco, si valuta meno. Ma ancora più preoccupante è quanto accade in libreria. Lo scaffale di scienza è desolantemente piccolo e poco fornito, mentre la sezione new-age, spiritismo, magia e dintorni tira moltissimo.

Eppure il fascino della scienza è proprio nell'essere reale, nello spiegare il mondo intorno a noi, e il farlo con prove, misure, modelli verificati dall'esperienza. E sono sicuro che la maggior parte delle persone non sa nemmeno che cose meravigliose si possono fare con la scienza. Non credo abbiano mai visto un ologramma, nè un magnete superconduttore, e neppure esperimenti semplici, tipo un liquido che sale per capillarità. Non hanno idea di come funzioni un pannello solare o una luce a led. Molti non hanno mai guardato in un microscopio o in un telescopio.

E se la colpa è in parte della società, poco attenta, distratta, superficiale, una rilevante fetta di responsabilità la ha anche la cultura accademica: pomposa, saccente, autoreferenziale e piena di se'. Quando l'unico amore che ha è il potere invece della conoscenza, quando considera gli ignoranti dei deficienti, quando si trincera dietro il tecnicismo per la pigrizia di non spiegare non avendo interesse ad essere capita, la cultura perde la sua natura di universalità e la sua virtù. Se la gente non ascolta può essere che il problema sia l'oratore noioso.


domenica 8 maggio 2011

le regole per gli altri...

Rimango basito dall'applauso che l'assise di confindustria ha riservato all'amministratore delegato della Thyssen, recentemente condannato per il rogo degli operai della sua azienda. Siamo tutti a lagnarci della mancanza di sicurezza sul lavoro, salvo poi assolvere moralmente chi ne è responsabile. Eh sì, perché quell'applauso dice che lui no, altri sono i colpevoli, gli operai magari che sono morti hanno sbagliato, ma lui no, è innocente. Tanti i morti hanno sempre torto.

E' l'ennesimo episodio del disprezzo delle regole proprio degli italiani. Siamo così insofferenti ai lacci delle leggi che ci sentiamo vicini a chi viene condannato per averle infrante. Le regole infatti non vanno seguite, ma interpretate. Il passaggio a livello rosso non vuol dire che non si possa passare, basta fare attenzione al treno, salvo poi esserne travolti. La precedenza stradale non è una questione di sicurezza ma di cortesia, di bon ton. Quando siamo sulle strisce pedonali e qualcuno si ferma ringraziamo, perché anche se l'automobilista è costretto a fermarsi dal codice della strada, si sa, quelle sono solo parole.

Per costruire esistono regole rigide, ma come fa un povero palazzinaro a guadagnare i suoi miseri milioni in questo modo? Aggiungiamo un pò di sabbia nel cemento, tanto...

E questi rifiuti tossici? Li vogliamo smaltire come si dovrebbe? Ma sono costi, la parola magica stella cometa dei nostri tempi. E allora via sotto il terreno, magari di un campo agricolo.

E se pizzicano qualcuno siamo sempre pronti a trovare una giustificazione, in fin dei conti è un povero Cristo, un capro espiatorio e così via. Ma prima o poi saremo anche parte lesa. Eh sì perchè è facile sentirsi assolutori quando i danneggiati dall'infrazione delle regole non siamo noi. Ed invece è proprio questo che non capiamo. Un torto che viene fatto ad una persona è un torto fatto a tutti noi, perché lede l'idea di società, di comunità, il senso di giustizia e la fiducia in essa.

giovedì 5 maggio 2011

Cristo non si è fermato ad Eboli, ha fatto scalo a Fiumicino

Benvenuti a Roma Fiumicino. Welcome in Rome Fiumicino. E' l'annuncio stereotipato che si ascolta dagli altoparlanti degli aerei che atterrano a Roma. Chiedo l'abolizione della formula Benvenuti. L'aeroporto Leonardo da Vinci è tutto, fuorché un biglietto di benvenuto. Molti lo ritengono il peggior aeroporto in Europa e io sono tra questi. Non è che abbia visto tutti gli aeroporti del mondo ma insomma nel mio piccolo mi pare di essere a 27.

Quello che è accaduto oggi è solo l'epilogo di una lunga storia. Ed è una cosa che non avevo mai visto!!

Fiumicino è andato peggiorando negli anni. Sempre.

Spedire il bagaglio vuol dire rischiare tre cose: lo smarrimento, sovente in pista perchè i carrelli non hanno contenimento laterale e quando curvano seminano valigie; il danneggiamento, perchè vengono trattati in malo modo ed infatti anche io ho dovuto buttare una valigia; l'attesa interminabile, visto che ci vogliono tra i 40 minuti e più di una ora per avere il proprio bagaglio.

Andare in bagno è un'altro azzardo. Gli orinatoi per uomini non funzionano mai. Le toilette hanno quasi tutte le porte scassate, molte lo scarico poco funzionante, tutte sono luride e lerce. In questo però sono in buona compagnia, visto che gran parte dello scalo è veramente sudicia.

Viaggiare in orario è una impresa. Tra i primi 10 voli in Europa per ritardo ben 5 partono da Fiumicino che è il secondo aeroporto peggiore di Europa in questa classifica di poca puntualità.

Ma veniamo alla grande impresa odierna. Volo Trieste-Roma, pieno come un uovo, perchè domani c'è sciopero forse e oggi volano tutti. 45 minuti di volo, 8 minuti sulla pista per arrivare al tubo pneumatico per l'uscita e dico 18, di-ci-otto minuti per aprire la porta. Ding Dong "Ci scusiamo per il protrarsi dell'attesa ma la porta scorrevole dello scalo NON si apre". Senza aria condizionata, sequestrati. Che dire?

Benvenuti a Roma....

domenica 1 maggio 2011

Siamo tutti un pò Carlo

Impossibile in questi giorni non avere visto le foto del matrimonio reale. Il mio pensiero è andato al principe Carlo. Non che lo abbia molto in simpatia, ma neanche in antipatia devo dire. Mi lascerebbe indifferente se non fosse che temo che molti di noi condividono una sorte simile a Carlo.

Carlo è la generazione di mezzo, quella che rimane compressa perché chi è venuto prima di lui non lascia mai il posto e chi verrà dopo già scalpita.

Mi pare un dejavu'. I professori universitari restano in cattedra ben oltre l'età della pensione. E' di questi giorni la polemica alla Sapienza sui prof senior. Io ritengo che ci siano persone straordinarie la cui esperienza deve essere utilizzata e non può andare sprecata. Però dovrebbero metterla a disposizione dei giovani ricercatori, dei giovani (esistono?) associati, degli altri ordinari. Ricavarsi un ruolo di consigliere, di grande saggio, ma discretamente. Non sono eterni, sebbene spesso si credano tali.

Non è possibile che decidano ancora delle sorti dell'Università o che siano in cattedra ad insegnare. La docenza è una attività faticosa, che richiede un grande impegno e entusiasmo. Quanti di loro lo hanno ancora?

Non sarebbe meglio fare spazio anche ai più giovani? Sono le responsabilità, le opportunità che determinano la crescita di una persona. Non si può stare a bagnomaria tutta la vita.

E dietro già arrivano i nuovi. Mi ha detto un ragazzo che stimo che siamo condannati. Io e tanti altri della mia generazione. Loro non possono, non vogliono e non devono aspettare che si vuoti il buffer di noi "vecchietti" per arrivare ai piani alti. Ed è giusto, sacrosanto e sono d'accordo.

Ecco perchè quando vedo Carlo e penso che forse non sarà mai Re, ritengo che una sorte analoga toccherà a molti di noi.